Lectio magistralis in occasione della consegna del VII Premio Enzo Piccinini
Aula magna di Nuove Patologie – Bologna, Policlinico Sant’Orsola
Sabato 8 marzo 2025

Da sinistra: Davide Pianori, Francesca Bisulli, Giancarlo Cesana, Anna Rita Piccinini, Fabio Catani, Massimo Vincenzi, Fiorisa Piccinini © Fondazione Enzo Piccinini ETS
Conosco Enzo da cinquant’anni, in metà dei quali la morte non ha abolito la sua presenza, misteriosamente vicina, come documenta anche il numero di persone che sono qui. La vita che vince la morte sostiene la speranza della resurrezione. Per la nostra fede ed esistenza la resurrezione è tutto. Cominciamo da qui.
In Resurrezione, Tolstoj racconta la vicenda del principe Nechljudov, che, avendo sedotto e abbandonato la giovanissima Katjuša, anni dopo, in qualità di giurato, se la ritrova davanti, prostituta accusata di omicidio e ingiustamente condannata alla deportazione in Siberia. Riconoscendo le sue responsabilità decide di riparare, di seguirla in Siberia e, se lei vuole, di sposarla. Si unisce alla colonna di deportati e durante la marcia vede due detenuti morti per colpo di calore. «E la cosa più tremenda è che li hanno ammazzati e nessuno sa chi sia stato ad ammazzarli… Nessuno era colpevole e intanto della gente era stata ammazzata… Se accadeva una cosa simile, la ragione era che tutti questi funzionari: governatori, direttori di carceri, commissari di polizia, guardie ritengono che esistano al mondo condizioni tali, che i rapporti umani con i propri simili non siano più vincolanti», cioè hanno abbandonato la “sensibilità umana” auspicata da Enzo nell’esergo della locandina di questo convegno. Avevano svolto le loro mansioni burocratiche e organizzative disinteressandosi di coloro cui erano rivolte.
Anche se il paragone può sembrare tirato, pensiamo al rapporto con i pazienti. La figura del medico, la più rappresentativa di chi opera nella sanità, nell’immaginario collettivo risulta in genere assai positiva. Si pensi ai protagonisti di numerose serie televisive. Qui il grande pubblico può immedesimarsi con il forte impegno e la dedizione richiesti da una professione drammatica, mischiata a innumerevoli contraddizioni personali e sociali e quindi piena di insuccessi come di notevoli risultati e soddisfazioni.
D’altra parte i medici, ma anche gli altri operatori della sanità, possono interrogare ed esaminare altri uomini che soffrono (appunto, pazienti!), e che spesso stanno di fronte a loro nudi in una condizione di fortissima dipendenza. A seguito dei loro accertamenti, possono influenzare un periodo o anche la totalità dell’esistenza di questi uomini, etichettandoli come malati, incurabili, ipocondriaci, mentitori, con importantissime conseguenze sociali ed economiche, che mutano lo stile di vita, impediscono o cambiano il lavoro, autorizzano a sottrarsi dagli obblighi sociali, limitano la libertà. Possono prescrivere l’assunzione di sostanze dagli effetti potenti (medicine) e qualche volta dannosi. Possono privare completamente certe persone – i pazzi o i malati contagiosi – della loro libertà e confinarle in un luogo chiuso come l’ospedale. Qui possono controllare strettamente queste persone e altre, che più o meno volontariamente vi giacciono, dal punto di vista di dieta, comportamento, sonno; possono anche eseguire una grande varietà di esami, a volte assai dolorosi e ripugnanti.
La persona ammalata, spogliata delle sue caratteristiche sociali e individuali, vestita tendenzialmente nello stesso modo, perde il controllo sul proprio corpo, spazio personale, privacy e uso del tempo. È assistita da persone mai viste prima, che si rivolgono a lei brevemente e formalmente, usando tra loro un gergo spesso incomprensibile.
Vizi e virtù del mestiere
La complessità dell’ospedale è cresciuta moltissimo, sia da un punto di vista tecnologico che amministrativo. La spinta alla specializzazione ha condotto alla parcellizzazione e alla differenziazione degli interventi sanitari. Alle esigenze della competenza specifica, della verifica su grandi numeri di pazienti, dell’efficacia dei metodi diagnostici e terapeutici e del contenimento dei costi crescenti della sanità, ha corrisposto la progressiva standardizzazione degli interventi in schemi o protocolli precisamente definiti, le cosiddette “linee guida”. La loro applicazione, tra l’altro, rende tranquilli nella coscienza di aver fatto il proprio dovere anche davanti a casi che alle linee guida non rispondono o non rispondono adeguatamente. Ma, come diceva Péguy, chi compie solo il suo dovere non compie tutto il suo dovere. Gli esiti sono guarigioni, cure, cronicità ed errori. Stime italiane, assai incerte per la loro variabilità, parlano di 14 mila-50 mila morti ogni anno, dovute quasi totalmente a cattiva organizzazione più che a negligenze professionali. Appunto, tendenzialmente nessuno è colpevole.
È tradizionalmente riconosciuto che nel rapporto con il paziente il medico debba essere guidato da quattro virtù: compassione, fiducia, discernimento e integrità morale. Viene sottolineata inoltre come fondamentale una buona capacità comunicativa, attraverso la quale essenzialmente si stabilisce la relazione con la persona che soffre. Da che cosa nasca questa capacità, così come l’esercizio delle virtù sopra menzionate, non è tuttavia ben definito dal relativismo culturale che pervade le facoltà di medicina e gli ordini professionali.
Tale ambiguità può inoltre essere aggravata da due atteggiamenti, di cui il medico è insieme vittima e apostolo. Il primo è la cosiddetta mentalità attuariale, consistente nella tendenza a ridurre fenomeni e comportamenti complessi a una dimensione biologica misurabile, limitata alla quantificazione della gravità delle alterazioni riscontrate e dell’entità dell’intervento correttivo da mettere in opera. Si perde di vista il fatto che, nella lotta alla malattia, le risorse decisive non sono nei numeri, ma nella speranza, nella fiducia, nella coscienza del comune destino su cui si fonda il senso della relazione tra medico e paziente.
Il secondo atteggiamento pericoloso sta nel soggettivismo etico, che così tende a trascurare la possibilità di una morale obiettiva, che impegni paziente e medico. Quest’ultimo, in particolare, deve certamente rispondere alla propria coscienza, ma nella direzione di un bene che deve servire e non strumentalizzare secondo la via che appare più comoda, rapida o remunerativa.
Il mutamento della relazione medico-paziente
Per correggere questi difetti, nelle facoltà mediche si sta cercando di integrare l’insegnamento della medicina con nozioni di tipo filosofico e psicologico che costituiscono il campo della cosiddetta bioetica, che concernono in genere il consenso informato, il segreto professionale e i limiti della competenza, soprattutto nelle fasi critiche della assistenza. Bisogna tenere presente però che ciò che fa procedere in un lavoro di grande responsabilità non sono dubbi sistematici o ideologie, ma la certezza documentata dall’esperienza e da una impostazione mentale positivamente certa del senso della vita e della sofferenza.
La relazione medico-paziente ha subìto notevoli mutamenti a partire pressappoco dagli anni Sessanta. Fino ad allora la condizione di debolezza del paziente e la sua ignoranza a riguardo del male da cui era colpito sembravano giustificare la necessità che questi si affidasse al medico come a un “padre buono”, che lo conducesse con la propria autorità. La progressiva democratizzazione della società, il controllo più accurato degli errori e delle ambiguità della professione hanno vieppiù sottolineato l’autonomia del paziente. Oggi, i pazienti vogliono sapere e decidere, e sempre più pretendono procedure che assicurino la condizione per cui “il medico propone e il malato dispone”. La medicina rimane comunque una professione potente, basata su un corpo di conoscenze non facilmente acquisibili, che in mani esperte rispondono a un bisogno fondamentale dell’essere umano, che, per questa ragione, non si sente semplicemente un cliente, ma una strana figura insieme di questuante e avente diritto.
La necessità di vivere di amicizia
La solidarietà è un’esigenza strutturale della persona, come un diritto derivante da una condizione esistenziale non ultimamente definita dalla diversa fortuna o sfortuna, ma da una dignità che rende se non eguali, misteriosamente fratelli. La solidarietà è anche un impulso attivo: è normalmente difficile trattenersi dall’aiutare un bambino che cade. Il problema è l’incostanza con cui tale impulso viene seguito, soprattutto quando richiede sacrificio. L’assistenza sanitaria chiama a ricostituire l’umanità da quel grande difetto che è la malattia, dai difetti più subdoli, ma eventualmente anche più gravi di intelligenza e moralità. Un operatore sanitario non può non impegnarsi nella ricerca di un ambito che lo aiuti in tale ricostituzione, con la chiara consapevolezza che né la comunità scientifica, né l’ordine professionale sono sufficienti.
Anche le idee più filantropiche decadono se non sono continuamente richiamate e approfondite. L’errore formativo più grande è quello di ritenere che la coscienza individuale possa “reggere” indefinitamente grazie a una coerenza ferrea a princìpi e nozioni, che una volta acquisiti mai sono messi in discussione. Come diceva Longanesi, bisogna stare attenti ad appoggiarsi sui princìpi perché si piegano. Non si può essere veramente amici degli uomini se non si vive di amicizia. E l’amicizia non è altro che una correzione (che letteralmente significa “reggere insieme”) del cammino ideale e morale di ciascuno verso il compimento del proprio destino.
Il rischio di scivolare nell’“industria del dolore”
Originariamente gli ospedali sono nati, più che per una capacità di cura, per una volontà di assistenza (carità) a malati che erano speso moribondi e comunque incurabili. A causa del miglioramento dell’assistenza la medicina moderna produce molti cronici e invalidi gravi. È indispensabile una dedizione infermieristica che renda umana e prossima la forza asettica e un po’ minacciosa della tecnologia e della scienza.
È da sottolineare che, nonostante le giuste esigenze di una adeguata formazione scientifica, la professione infermieristica, essendo svolta a stretto e continuo contatto con il paziente, mantiene una fisionomia originale e tradizionale. Le ricerche su quali debbano essere le caratteristiche moderne di questo lavoro indicano che i pazienti valutano sempre l’infermiera più come persona che come professionista. Una buona infermiera è giudicata tale soprattutto in base alle sue qualità umane: modi, personalità, presenza e pronta disponibilità. I pazienti si rivolgono a lei cercando un interlocutore della loro vulnerabilità, dipendenza, sofferenza, insicurezza e paura di morire.
Ciò vale anche per i medici e gli altri operatori sanitari. Di fronte a un uomo o a una donna che soffre è necessaria la presenza di un altro uomo o di un’altra donna, che non solo siano capaci di aiutare, ma che anche lo desiderino. Un ospedale senza questa presenza sarebbe un’“industria del dolore”, probabilmente assai meno efficiente anche da un punto di vista produttivo.
Fuori dagli standard
Il mantenimento della salute nelle società occidentali, nonostante la retorica delle affermazioni contrarie, viene sempre più assimilato a un processo industriale specifico. Nell’industria la preoccupazione fondamentale è quella di unificare i processi produttivi, quantificando e stabilizzando le possibilità di variazione, al fine di portare prevedibilità, controllo di qualità e riduzione dei costi.
L’industrializzazione della medicina può essere un fenomeno per certi versi inarrestabile, ma difficilmente cambierà quel che il paziente chiede al medico e quindi quello che il medico sarà comunque chiamato a dare. Per quanto si standardizzino i requisiti tecnologici della prestazione medica, questa non potrà essere fornita che all’interno di un rapporto che preme per uscire dagli standard e frequentemente ci riesce. Bisogna scorgere e imitare queste “riuscite”. La capacità critica non sta nel vedere le cose che non vanno, ma nel vedere le cose che vanno in mezzo a quelle che non vanno. È il modo migliore di non scoraggiarsi e affrontare costruttivamente la grave crisi del nostro servizio sanitario, denunciata da molti operatori.
Non si può sfuggire alla necessità del dono di sé, che è amore alla verità più che a sé stessi, così da amare l’altro come sé stesso. Come diceva Enzo, mettere il cuore in tutto ciò che si fa, si dice e si pensa, instancabilmente come compito della vita. Il cuore non è semplicemente un sentimento, ma la traccia che chi ci ha fatto ha lasciato in noi per orientarci verso ciò per cui siamo fatti, il destino della vita. Per Enzo, per me e per tanti altri, che lo abbiamo imparato da Giussani, il destino ha un volto, quello di Cristo.
Giancarlo Cesana